Proposero un giorno una cura che sembrava

Proposero un giorno una cura che sembrava efficace. C’erano stati numerosi tentativi in questo senso, un processo di affinamento clinico che si era aperto al massimo numeri di sperimentazioni e in violazione del numero massimo di protocolli, ognuno di questi prima contestato, poi promettente, poi completamente inutile. La svolta era arrivata né dalla medicina clinica, né dalle analisi epidemiologiche, terreno troppo minato e diviso in scuole rivali per poter giungere a un riconosciuto primato delle cure: chiunque temeva così tanto di fallire che se anche avesse finalmente individuato la panacea, avrebbe preferito tenerla nascosta piuttosto che percorrere quel ponte. La svolta era perciò stata raggiunta da una disciplina più distante e onnicomprensiva che durante l’emergenza sanitaria aveva perso il suo trono di regina delle scienze perché troppo distante dai problemi dell’immediato, la svolta era arrivata dalla fisica teorica e da un ambizioso gruppo di ricercatori delle isole dell’amicizia che per sconfiggere la morte era andato all’origine della vita stessa, cioè alla sua composizione atomica. 
Lo studio partiva quindi da una considerazione minima ed essenziale: noi diciamo che un pezzo di materia è vivente quando fa qualcosa e, di converso, che è morto quando non fa niente o, come dicevano più propriamente gli scienziati delle isole, quando cade in uno stato inerte di equilibrio e la sua vis viva si spegne per sempre. Per evitare di cadere in questo stato, noi umani siamo soliti fare qualcosa: mangiare, bere, respirare, così facendo immettiamo energia nel nostro corpo e alimentiamo la nostra vis viva. All’interno del piccolo gruppo di studiosi prese forma  l’autorevole parere per cui il Virus, quando scoperto e attivato, interagiva con ogni parte del nostro corpo spingendola verso l’inattività, riducendo cioè la sua vis viva fino all’annientamento dell’intero organismo. Ciò si doveva al fatto che nella sua condizione originaria, isolato da ogni ospite, il Virus era in un perfetto stato di equilibrio, dato che la possibilità di essere o non essere presente in un organismo era la stessa. Quando veniva però identificato, l’equilibrio era interrotto: per questa ragione il test dava sempre il risultato positivo, perché se il Virus veniva riscontrato dal test veniva annullata la possibilità che non fosse presente, ma se invece non emergeva, aveva bisogno che l’equilibrio venisse ristabilito attraverso un ritorno alle condizioni iniziali; di conseguenza, aveva bisogno di attivarsi. Nella sua straordinaria semplicità, il Virus aveva sviluppato nel corso del tempo capacità completamente diverse dalle nostre per trattare con l’ambiente circostante e rispondere alle sue sfide che sono tutte, in ultima analisi, confronti con l’incertezza. Il mondo che noi abitiamo è lo stesso che abitano tutte le specie viventi, è lo stesso mondo degli animali e dei vegetali, ma anche dei virus e dei batteri, un mondo fatto soltanto di atomi e vuoto e che perciò deve uniformarsi a una teoria del tutto. Al livello macroscopico della vita umana, l’imprevedibilità degli eventi atomici genera una serie molto estesa di ostacoli con i progetti di vita dei singoli, di fronte alla maggior parte dei quali siamo completamente indifesi. Impotenti nei confronti di una tempesta, nelle vicinanze di un pericolo sconosciuto, nei pressi della morte, gli umani hanno elaborato un differente sistema difensivo a posteriori: dare un senso al mondo, e quindi anche alla sua incertezza, attraverso delle elaborazioni sullo stesso. Ma mentre noi abbiamo sviluppato il pensiero razionale e la parola che ci permettono di metabolizzare l’incertezza trasformandola in una previsione o una speranza il Virus ha scelto una strada molto più semplice e funzionale. Questo è quanto separa gli umani dai virus: la nostra risposta evolutiva è stata un sistema complesso ma non troppo dispendioso, che permettesse al nostro organismo di mantenere attive e perfezionare ulteriori funzioni e strutture cellulari, che desse luogo alla vita così come la conosciamo dal punto di vista umano. Il Virus ha invece preferito la strada radicale; ha rinunciato a tutte le sue altre possibilità di esistenza per concentrare le sue energie su un’unica risposta, così efficiente e dispendiosa da richiedere che tutto quanto noi chiamiamo vita prendesse in lui la forma di un semplice frammento di RNA. Non arti, né sangue, né organi, nessun pensiero, nessuna capacità espressiva: nulla di tutto ciò ha preso forma dal combinarsi degli atomi del virus, perché l’energia necessaria a questa configurazione è stata destinata a un’unica grande risposta. Questa risposta è l’annullamento dell’incertezza attraverso l’equilibrio: il Virus si nutre di incertezza ogni qualvolta la incontra e la metabolizza per creare equlibrio, ovvero certezza. Se per noi è vivo ciò che fa qualcosa, questo qualcosa può assumere infinite forme: camminare, correre, parlare, scrivere, osservare, annusare, mangiare, respirare oppure semplicemente pensare; se perciò la vita corrisponde con le sue infinite possibilità, la vita umana è per sua stessa definizione incertezza e un organismo che mastica l’incertezza per generare certezza non può fare che un’unica cosa quando incontra la vita umana: distruggerla. Se la nostra vita fosse solo pensiero, probabilmente il Virus ci lascerebbe vivere perché non ci sarebbe alcun dubbio su cosa la vita farà domani, ma dato che così non è, l’unico modo per ristabilire l’equilibrio è la cessazione della vita, il ritorno allo stato di equilibrio inerte. La cura non poteva perciò che consistere nel fornire ai malati una dose costante e perenne di disordine, fornire ai loro corpi quell’elemento che li preserva dall’equilibrio e cioè dalla morte: entropia e più precisamente entropia negativa.
Un buon dosaggio di entropia negativa avrebbe permesso di salvare un numero enorme di vite, probabilmente la totalità di queste. L’idea era affascinante e suadente, generata com’era sulle onde dell’oceano Pacifico e con i suoi suoni soavi, ma non convinceva interamente il governo e il Comitato. La scelta di soluzioni eleganti era in linea con la strada perseguita per la risoluzione del problema ma, questo veniva costantemente sottolineato, era altrettanto importante che queste scelte fossero complesse. Il governo, disse il presidente, ha attuato piani di una certa complessità. Lo Strumento era il massimo della complessità studiata e realizzata, tanto da richiedere l’intervento di una decina di esperti per spiegarne il funzionamento; un maggior numero di esperti indica una maggiore complessità del problema e, per un principio banale di proporzionalità, problemi complessi richiedono soluzioni complesse. Era questa risposta sufficientemente complessa? Per rispondere a questa domanda fu organizzata una sotto commissione di esperti, in totale quattordici, un numero non troppo piccolo, ma neppure abbastanza grande da suggerire l’ordine di complessità necessario: da questo numero già si intuiva su quali scogli si sarebbe originata la proposta portata dalle onde. L’entusiasmo iniziale dei media venne così affogato in acqua salata, ogni onda che lavava via un parere favorevole, il ritorno della marea che allontanava la barche degli esperti delle isole dell’amicizia e le spingeva lontano dalla terraferma delle nostre complesse certezze. La proposta rimase alla fase della valutazione della sua complessità e da lì non emerse mai più, arenata com’era dalla discussione iniziale e cioè se fosse necessario, se la complessità lo richiedesse, avvalersi del parere di un quindicesimo esperto. Per tutti gli altri, per chi aveva sperato, non si aprì neppure la strada del contrabbando: nessuno sapeva come ottenere dell’entropia negativa, chi potesse sintetizzarla, neppure i più rodati narcotrafficanti e pirati del nuovo millennio. Era una strada che percorsi pure io, internet si apriva a immense possibilità di collegamento e, link dopo link, toccai parti inesplorate del globo, compagni di merende inaspettati e aspetti a me ignoti della criminalità organizzata, finendo però ogni volta per rimbalzare nel solito vicolo cieco e incontrare il solito ignoto navigante che fino a quel momento avevo immaginato essere la chiave di volta e la porta di accesso al potente mondo dello spaccio internazionale di farmaci rivoluzionari. E ogni volta anche quel qualcuno aveva pensato lo stesso di me, così che ci ritrovavamo i soliti quattro stronzi, l’uno l’Al Capone dell’altro, senza neppure un indizio su dove riprendere il nostro cammino. Ci consolammo con notizie incoraggianti, articoli tradotti alla bell’ e meglio su come l’entropia avesse salvato le isole dell’amicizia e riportato alla normalità un luogo lontano che non poteva rinunciare al contatto affettivo, pena la perdita totale della sua identità fondativa. Un luogo fedele a se stesso e autentico. Quando però lo Strumento mi era stato recapitato e, senza che io facessi nulla, si era attivato nella mia vita, ogni volta che finivo su quelle pagine e, solo mentalmente, su quelle spiagge lontane, cominciava a suonare all’impazzata e a segnalare l’impossibilità di continuare con la visione di un contenuto scarsamente complesso che minava il collettivo sforzo della nazione nella sua battaglia, certo parafrasando cosa quel biiiip prolungato stesse a significare. Pensai a un guasto, o di avere toccato inavvertitamente qualcosa; la sua superficie perfettamente liscia non dava però segno di poter essere in qualche modo manipolata, né la batteria poteva essere scarica perché non aveva nessuna porta di accesso, né altri strumenti di collegamento all’infuori di sé. Però io tornavo a navigare su quelle pagine di speranza, e lo Strumento tornava a suonare e una pagina cominciava a sparire, fino a che non ce ne furono più, sepolte, come capita prima o poi a ogni piccola isola, sotto uno tsunami più potente del precedente. Fu allora che lo Strumento prese a comunicare non solo per suoni: una scritta rossa digitale lo colorò di un conto alla rovescia: - 128 ore, 59 minuti, 59 secondi.

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