La febbre del regolamento costrittivo

La febbre del regolamento costrittivo aveva infettato anche gli amministratori di condominio, l’ultimo gradino della politica dei cerchi concentrici. Prima venne il governo centrale e furono allora i presidenti delle regioni taliane a manovrare quelle poche leve che avevano a portata di mano per far vedere il loro alacre attivismo e senso del dovere: lo avevano chiamato del ‘sano fine-tuning autonomo’. Il cerchio più grande vedeva il quadro di insieme, non i dettagli, spettava allora agli amministratori dei cerchi regolare in maniera più accorta le vite dei taliani per spezzare le reni del contagio. Dentro il cerchio grande, tanti cerchi piccoli, e ogni cerchio piccolo un nuovo cerchio grande e dentro ognuno di questi nuovi cerchi piccoli. Nazioni regioni province aree metropolitane comuni quartieri rioni: cerchi di cerchi, cerchi su cerchi, cattivi infiniti, infiniti crudeli. Ogni cerchio con il suo re e il suo sceriffo, più efficace del suo superiore perché migliore conoscitore della particolare categoria di taliani da lui sorvegliata. Ci fu recapitata una mail dal nostro più prossimo sorvegliante, l’amministratore del condominio nel quale abitavamo soltanto io e il mio vicino perché le altre case erano sfitte da tempo. Una copia della presente mail la avremmo trovata appesa anche sul portone del palazzo, ma se l’avessimo vista avremmo violato le regole della stessa che prima di ogni cosa stabilivano l’obbligo di restare dentro le proprie mura domestiche e mai e poi mai recarsi in spazi condivisi con altre persone, né tantomeno aprire le finestre anche se attrezzate con zanzariere. All’interno di ogni casa si imponeva inoltre di lavare in candeggina gli asciugamani ogni qualvolta venissero utilizzati, non occupare la stessa stanza contemporaneamente e contestualmente a un’altra persona, indossare guanti e mascherina durante il trasferimento dauna stanza all’altra, utilizzare in cucina solo cibi precotti in porzioni monouso, non avere rapporti sessuali, non condividere letti, utilizzare i comandi vocali dei nostri apparecchi elettronici. Non era vietata, seppure sconsigliata per questioni di buonsenso igienico, la masturbazione. Il rispetto di tutte queste norme di civile educata e doverosa convivenza condominiale sarebbe stato garantito dall’installazione di un circuito di telecamere all’interno delle nostre case da pagare con un considerevole ma civile educato e doveroso aumento della nostra quota mensile di spese condominiali. Fortunatamente né io né il vicino pagammo le quote previste per l’installazione e le telecamere non entrarono mai in funzione e di conseguenza non poterono mai mostrare come, pur costretti a non fare sesso per mancanza di persone in casa con cui farlo, continuavamo a sottrarci all’obbligo di girare con guanti e mascherina fra cucina e camera da letto. Sapevo per certo dalle urla di frustrazione che rimbobavano per le scale e attraverso la mia porta che il vicino igienizzava il suo telefono e passava delle ore a provare a mettersi in linea con i vecchi numeri erotici 166. Ce l’hai almeno un catalogo Mondialcasa? Chiedeva disperato sperando che lo sentissi.
Lontano dalle sguardo delle telecamere interne all’appartamento che non c’erano, con le persiane chiuse per schermare i droni, pure con la porta blindata e sottovoce, il professor W* mi veniva talvolta a trovare. Il banalissimo Al Worden camminava scalzo per casa come qualsiasi adoratore di cargo, senza però la maniacale attenzione per il cielo, e prendeva una bottiglia d’acqua gelata che tracannava. Dallo straordinario al banale, dal paradossale all’ovio: una linea così sottile da passarla con un fiato, senza sforzo. Tutti Alfred, tutti eccezionali. Non mi sorpresi più di tanto la prima volta che vidi il professor W* a fianco alla mia bottiglia gelata, perché avrei dovuto stupirmi di qualcosa di eccezionale?
Ne vuole un po’? Gli chiesi eccezionalmente.
Oh no, grazie, mi rispose normalmente. Io non bevo.
Ha ragione, è ovvio che lei non beva.
Eppure è paradossale.
La seconda volta, seduto sul divano, rischiarato dalla luna che si affacciava alla finestra, guardava nella notte aspettando il cargo.
Attende anche lei? Gli chiesi normalmente.
Chi ha tempo non conosce attesa, mi rispose eccezionalmente.
Il paradosso del tempo, mi trovai a commentare.
La sua ovvietà, disse ancora il professore.
Smisi presto di contare quelle apparizioni; non mi spaventò neppure quando lo trovai a sedere sul mio letto in una vestaglia di raso azzurra, madido del sudore di una notte d’estate.
Una forma di vita non può, ripeteva fra sé e sé.
Non può cosa?
Non può proprio, è impossibile.
Cosa è impossibile?
Sarebbe... paradossale.
E invece non lo è?
No, è ovvio.
Una forma di vita non può, provai a cominciare io...
...avere un linguaggio privato.
Alfred che parla alla Luna.
Esattamente, amico mio. Alfred che non parla alla Luna.
Sa, professore, noi non potremmo stare qui.
Non facciamo nulla di male.
Lo so, ma non c’è distinzione fra bene e male, solo fra lecito e illecito. E questo lo è.
Lecito?
Illecito.
Noi non parliamo alla Luna, condividiamo invece la nostra forma di vita.
Magari lei non esiste e io parlo da solo.
Tu non parli alla Luna, amico mio. Nessuno parla da solo, nessuna forma di vita.
Lei dice che è impossibile.
Certo lo è.
Paradossale?
Ovvio.
Si spieghi.
La natura stessa della forma di vita è la condivisione. Lecito, illecito? Chi lo stabilisce?
Il governo, temo.
No, il gioco. La forma di vita si esprime attraverso le regole. Il linguaggio è un insieme di regole. Il linguaggio è il gioco. La forma di vita è l’attività del giocare.
Non la seguo.
Lecito, illecito. Qualche mese fa lo avresti detto, amico mio, che era illecito parlare con me?
Avrei detto che era paradossole.
E invece ora ovvio.
Paradossalmente lo è.
Ovviamente lo è. Le regole, amico mio.
Chi le decide le regole?
La forma di vita. Nessuno gioca da solo, nessuno ubbidisce da solo una sola volta nella vita a una sola regola. Giovedì, per Dio!
Che accade giovedì?
Giovedì è la regola.
Che significa?
Nell’isola deserta, quella forma di vita non può esistere senza Giovedì. Non può giocare e quindi non può parlare e quindi non può essere.
Ora capisco, ma forse lei, professore, intende Venerdì.
Venerdì, Giovedì, che importa amico mio?
E cosa importa allora?
Che la forma di vita è condivisa e non è privata: è pubblica.
Come lo erano gli ospedali.
Ci hanno insegnato che quelli possono smettere di esserlo. Pubblica, privata, la sanità continua a esistere. Ma una forma di vita... una forma di vita non può avere un linguaggio privato. Altrimenti non è, cioè non esiste.
E se lo covasse dentro di sé? Se fosse pronto lì che ribolle, come il ripieno al cioccolato di un budino che viene fuori solo quando il cucchiaino ne viola la struttura esterna essenziale.
Che gusto avrebbe un budino del genere?
Ottimo: freddo fuori, caldo dentro. Paradossale.
Ovviamente lo sarebbe.
Magari è proprio come un budino del genere.
Non può, non può proprio.
Ne è sicuro? Mi sembra una questione paradossale.
Invece è ovvia. Non lo vedi? Il ripieno non può stare dentro, il ripieno non c’è: c’è solo la forma di vita e le regole che si è data.
Allora la forma di vita può avere regole sue, ubbidire per sé, per una sola volta nella vita, per una regola soltanto, per un solo momento, per questa porzione di universo, per questo istante fra le galassie.
Ho capito, amico mio, ho capito davvero. A te ancora sfugge l’ovvio.
Paradossalmente credo di cominciare a capire.
Sì, sì, sì! Lo vedo nei tuoi occhi. La forma di vita non è singola, per questo non potrà mai avere un linguaggio privato: nessuno è solo a questo mondo; nessun pensiero è isolato, c’è solo un grande fuoco che brucia pensiero e produce pensiero. L’ho capito, l’ho capito, amico mio.
Sì, ora è chiaro anche a me, professore. Non esistono soliloqui e nessuno parla mai da solo.
Certo, guardati: non parli mica da solo adesso.
Un’unica forma di vita.
Non posso esserne sicuro, non credo, a essere sinceri che ci sia una sola forma di vita. Ce ne saranno tante, ma ognuna è collettiva e nessuno parla da solo e nessuno pensa da solo. Chi le può conoscere le altre, chi può essere con loro. Oddio: chi pulò essere come loro? Eppure esse vivono.
Mi aiuti a comprendere, cosa significa tutto questo? Che le regole ce le siamo inventate, che là fuori non c’è un mondo preciso ma soltanto quello che abbiamo descritto per questa volta?
Eppure esso è.
Non ne sono più sicuro, conosco troppo bene i limiti del mio mondo.
Il tuo mondo?
Questa casa è il mio mondo.
No: il mondo è tutto ciò che accade.
E allora cosa significa tutto questo?
Significa che non può stare dentro.
Chi?
Non può stare dentro dei confini, deve venire fuori.
A cosa si riferisce?
Sì, è meraviglioso! Deve essere condiviso, è nella sua natura. Niente è privato: il linguaggio, le regole, le abitudini, il pensiero, la malattia, la cura, la condizione interiore, raccontare una fiaba, dire bugie, scherzare. Niente è privato. Una forma di vita non può non essere condivisa e niente può restare dentro un recinto: verrà fuori perché è già fuori, perché la forma di vita non è individuale. Oh, se solo le avessi comprese anni fa queste cose.
Nel letto ero rimasto soltanto io, la coperta sgualcita, la finestra ben chiusa: fuori da questa qualcosa accadeva e qualcuno guardava il cielo aspettando anche oggi il suo cargo. Una sorta di muggito lo testimoniava frantumando i vetri delle finestre; cominciava lontano e poi si faceva più vicino, inglobava le voci degli altri appartamenti e degli altri condomini. Un coro, un canto, no, ecco: una preghiera. Nel buio dei pochi lampioni rimasti, delle case rimaste a corto di lampadine, delle insegne rimaste senza la corrente elettrica, il cielo stellato era più vicino e con questo tutti gli astri. Una luce più vicina e veloce degli altri moltiplicava la potenza del muggito: il cargo, il cargo, il cargo. Ma se qualcosa fosse caduto dal cielo chi mai avrebbe potuto raccoglierla? Il muggito taceva come il professore. Eppure qualsiasi forma di vita, per quanto piccola potesse essere, per quanto nascosta allo sguardo del mondo doveva venire fuori. Non esistono tragedie private.s

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