Il mondo non finì con un lamento, ma con un botto

Il mondo non finì con un lamento, ma con un botto fragoroso. La chiusura dei supermercati  era stata accompagnata dalla consegna a domicilio, palazzo per palazzo, di un pacco settimanale di beni di consumo e primaria necessità. Il pacco, un parallelepipedo di cartone di un paio di chili avvolto in una busta arancione con le indicazioni di pericolo biologico veniva recapitato da un drone paffuto fuori dai portoni dei palazzi assieme all’annuncio dell’ordine con cui gli inquilini sarebbero dovuti scendere a recuperare il proprio. In aperta violazione del nuovo regolamento condominiale scesi a prendere il mio, lo trascinai su per le scale e dopo averlo scartato dalla sua busta, che sarebbe servita a riporci dentro i rifiuti qualora non fosse stato possibile bruciarli in balcone perché sprovvisti o di fuoco o di balcone, cominciai a esaminarlo. Mi ero già convinto che lo scopo di buona parte dei provvedimenti non fosse tanto combattere il Virus, ma educarci a una vita più modesta e di felice decrescita e quindi non mi stupii di trovarci un paio di pacchi di pasta della più mediocre delle qualità, una bottiglia di olio di semi, della carne in scatola, una bottiglia di latte, qualche bustina di zucchero e quella orrenda frutta in pezzi a lunga conservazione che distribuiscono negli ospedali.
Inizialmente la reazione popolare, così come emergeva dalla rete e così come la dipingeva il telegiornale,[O almeno credo, dato che non guardavo più la televisione da mesi.] fu di generale entusiasmo. Non c’era da stupirsi di quella curiosità che si accompagnava all’apprezzamento di qualsiasi novità, era quanto di più umano potesse esserci in vite così inautentiche come erano le nostre. La novità però passa, la curiosità va rinnovata e così i pacchi settimanali, ripetetivi e monotoni persero il loro interesse e pure il loro gradimento, la loro novità. Quei falò di rifiuti nei balconi però mi affascinavano e si poteva restare per ore a guardarli dalle finestre delle proprie camere con autentico coinvolgimento, data anche la loro repentina evoluzione. Da semplice atto coscienzioso e di vigile cittadinanza, i falò si trasformarono in rituali: intere famiglie presero a sedersi intorno solo per guardare le fiamme che bruciavano gli ultimi residui delle loro vanità e del virus eresiarca. Poi le famiglie cominciarono a raccontarsi delle storie e a scuotersi e a girarci intorno e a danzare, fino a quando venne il muggito. Un lungo muggito che passava di fiamma in fiamma fino alla perdita del fiato e si concatenava e consolidava a formare un unico gesto di richiamo al cielo. Il muggito chiamava il nuovo pacco che veniva dal cielo, che un drone paffuto avrebbe portato. Non il solito pacco settimanale, no: qualcosa di enorme, di pesante, di ricco. Pasta di migliore qualità, verdure pregiate, frutta fresca e forse perfino qualche panettone con le gocce di cioccolato. Degli abiti nuovi, dei trucchi, montagne di libri inediti e caramelle gommose. Sarebbe venuto di notte, al fuoco dei falò, alla luce della luna, quando una stella più bassa, un cargo, avrebbe recapitato la lauta ricompensa di chi aveva rinunciato a tutto. Il muggito era il verso del culto e andò avanti per altri mesi ancora.
Quella notte il muggito si interruppe: qualcuno urlò e quell’urlo prima spezzò la catena poi la ricreò sotto forme indistinte, iati di vocali dove c’era quel vecchio verso armonico, l’inserimento di qualche consonante, l’articolazione più decisa dei fonemi e infine le parole che si facevano più chiare e si passavano di balcone in balcone, le parole di una lingua già nota ma recentemente poco praticata, non più le parole, ma la parola, il Verbo. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. I fuochi parlavano. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo I fuochi strillavano. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo I balconi ruggivano. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. I balconi tremevano. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. I fuochi si spensero sotto il vibrare dei piedi, i balconi tremarono ancora. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. Cargo. E tutti infine si riversarono in strada.
Quando aprii gli occhi mi trovai in strada come tutti gli altri. La luce di pochissimi lampioni rischiarava la notte, solo laddove i falò lasciati incostuditi si erano impadroniti di appartamenti o di condomini interi era più semplice vedere con gli occhi ciò che gli altri sensi lasciavano soltanto intuire. Quelle persone che per mesi si erano guardate con sospetto, aggredite verbalmente, odiate per una semplice passeggiata fuori orario si incontravano e si univano ora nelle loro tenute casalinghe e poche decise su che cosa si dovesse fare. Il coro si era interrotto e la caccia era aperta, grossa e non più minuta, di oggetti e non di persone, di un amico e non dei nemici. Nessuno però aveva visto il cargo o poteva intuire dove fosse caduto, un oggetto così grande eppure invisibile come il virus. Sciamavano da una parte all’altra, senza ordine; prima si tenevano a distanza, poi sempre più vicini e infine sentii una spalla sfiorarmi e un piede schiacciare il mio e visi su visi, pallidi  e sfigurati dall’igiene ossessiva piombare vicino al mio, così vicini da sentire le loro parole, i loro pensieri.
Io l’ho visto! Gridò una voce.
Sì, anche io l’ho visto! Fece eco un’altra.
E via dietro l’ultimo grido, non più come formiche, ma come un’onda.
Non c’è, qui non c’è.
Neppure qui.
La marea ritornava placida e spaesata.
Io l’ho visto!
Il cargo non c’è.
Ho visto il virus!
La marea prese a disfarsi discretamente nel suo movimento ondoso.
Non puoi averlo visto.
Lo vedo, fra noi.
Io vedo il cargo!
Anche io vedo il cargo.
Stupendo.
Lo sento.
Il cargo.
Il virus.
Dov’è? Dov’è?
Guardatevi le mani, lo vedete?
Il cargo?
Le mani, le mani.
L’ondata montava nuovamente, più irrequieta. I miei occhi si erano abituati alla penombra e potevo ora riconoscere gli occhi e le labbra e gli zigomi di quelle facce. C’era la famiglia del palazzo di fronte, quella che per anni avevo solo visto dalla finestra, mai incrociata per strada e neppure dal verduraio, tutti loro: la madre, il padre e i due bambini. C’era il mio vicino con le lacrime agli occhi e la ragazza della porta accanto che per anni aveva cercato di sedurre. C’erano i miei colleghi e i miei amici più cari, i miei studenti di oggi e quelli che non vedevo da anni, quelli che avevo promosso e quelli che avevo bocciato, quelli che avevano smesso con gli anni di salutarmi e quelli che neppure si ricordavano di me. E io avrei voluto abbracciarli tutti. C’era tutta l’umanità che si riversava nella notte delle fiamme, che per la prima volta dopo lungo tempo guardava davanti a sé, cercava per le strade e non alzava più lo sguardo verso i balconi, verso le case che bruciavano e che ora sembrava fosse felice di lasciar bruciare. E io volevo abbracciarla tutta. Dopo che avevamo bruciato ogni nostra consuetudine, ogni nostra certezza, ogni ora della nostra vita e ogni nostra vanità, non era rimasto altro da bruciare che le nostre case e poi forse, chissà, noi stessi. La marea aveva smesso di muggire e di cantare e di parlare, aveva rinunciato a qualsiasi comunicazione sonora per lasciare spazio a simboli incarnati. Per mesi e forse più quell’umanità aveva pensato a salvarsi la pelle pure al costo di farla agli altri e a nient’altro. Non a capire le esigenze di ognuno, non ad accettare le loro difficoltà, non a comprendere le loro incapacità, né a pesare i loro comportamenti, ma solo a farsi la pelle a vicenda per salvare la propria. I cecchini delle macchine fotografiche, i delatori compulsivi, gli insulti e gli oggetti lanciati contro i nemici che bisogna rendere umani e tangibili perché quelli dichiarati non potevano essere visti e combattuti. Ora che i miei occhi si abituavano alla penombra non c’era più bisogno di aprirli, né di orecchie per ascoltare. Non si può dire che si vedesse, ma in qualche modo era lì, non poteva essere detto, si mostrava: nati liberi e ovunque in catene, nientre da bruciare se non le proprie prigioni.
Il suono delle sirene interruppe ogni cosa, la luce dei droni accese la notte, i richiami degli altoparlanti coprirono ogni altro rumore. Poi la polizia fu sopra quell’onda, su quella umanità: gigantesche figure in sacchi di gomma con maschere integrali e bombole di ossigeno, gli anfibi pesanti quanto le mani che menavano sulle nostre schiene mentre la cantilena dei droni accompagnava il supplizio.
Tornate a casa.
Dovete stare a casa.
Andrà tutto bene.
Botta su botta la marea si disintegrava, ogni onda contro l’altra, ogni goccia per sé. Ci mettemmo a correre disordinati come disordinata era cominciata la nostra marcia e talvolta senza nulla da cercare perché dove le case erano bruciate non c’era più un posto dove tornare. Sotto i miei piedi che pestavano per terra l’asfalto si faceva più molle, diventava carne e ossa e poi ancora più molle e fragile: pelle. Correvo su tutta quella pelle, i droni con gli idranti spegnevano gli incendi e con questi la notte e la luce bianca dei zanzaroni volanti mi aveva reso nuovamente cieco e solo, senza studenti, senza amici, senza il vicino di casa. Annaspavo fra quella umanità che mi veniva incontro e mi urtava, che cadeva e riprendeva a odiarsi: ogni uomo era nemico, ostacolo verso il ritorno a casa.
Tornate a casa.
Tornate a casa.
Restate a casa.
Restate a casa.
Le vie erano tutte uguali e tutti uguali erano i portoni, soltanto la pelle mi faceva da macabra guida. Su che cosa stavo camminando? Sugli ultimi giorni dell’umanità? Non avevo il coraggio di guardare oltre e chiusi gli occhi. Quando li riaprii ero dentro casa. Non riuscivo a respirare, sentivo il cuore esplodermi nel collo, la fronte farsi calda: i sintomi del virus, l’errore madornale di avere toccato qualcuno, l’incauta presunzione che non mi sarebbe successo nulla. Sentii le mani farsi gelide e cominciai ad annaspare in cerca d’aria, dell’ultima boccata d’aria prima che il virus me la potesse rubare via tutta, condannato a morire sul pavimento del soggiorno, solo come ogni uomo che muore, perché gli ospedali non potevano più ricevere nessuno. Un ultimo sforzo ancora, una morte più degna, una bella morte con una bella foto da stringermi al cuore: solo così, con questo ultimo sforzo della volontà raggiunsi la poltrona e mi lasciai morire. Il mio respirò sembrò fermarsi, si faceva più ritmico, pacato, il petto smise di contrarsi. Mi calmai, portai la mano alla vena giugulare e sentii il battito farsi più sereno, il calore tornare a scorrere fra le dita: no, non sarei morto da solo su quella poltrona. Respirai ancora in profondità e poi ancora una volta, immagazzinando tutto l’ossigeno che potevo. La corsa e la paura mi avevano fiaccato ma non ucciso. Respirai ancora una volta e infine tirai un sospiro: non ero morto e non ero solo perché Lui era davanti a me, con la schiena poggiata allo stipite della porta e il mio stesso sospiro disegnato sul corpo.

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