Lui continuava a guardarmi

Lui continuava a guardarmi; nei suoi occhi non c’era alcuna paura e nei miei non c’era alcuno stupore. Stava lì, poggiato con la schiena sullo stipite e non faceva altro che guardarmi, come guardi una persona che conosci, come se entrambi ci aspettassimo che fosse lì e che non potesse trovarsi da nessuna altra parte del mondo. Aveva ragione: lo aspettavo da mesi, forse da tutta la vita. Vieni, fatti avanti, gli dicevano i miei occhi; vieni, fatti avanti mi invitava Lui.
Penso che il peggio sia passato, disse.
Non sento più nessuna voce, gli risposi.
Non c’è più nessuno, possiamo stare tranquilli.
E se qualcuno ci avesse seguito?
Non ci ha seguito nessuno; hanno ottenuto ciò che volevano e ora finalmente siamo a casa. Non vogliono nient’altro da noi.
Perché i manganelli allora?
Perché sono arrabbiati.
Per cosa?
Perché non siamo morti.
Non ti seguo.
Se fossimo già morti non dovrebbero fare tutti questi sforzi per tenerci in vita.
Posso offrirti qualcosa adesso?
Hai dell’acqua?
Sì, certo. Ma non feci in tempo ad alzarmi che già in cucina Lui apriva con sicurezza i pensili, prendeva il bicchiere, si volgeva verso il frigorifero e al suo interno verso quel preciso scompartimento, afferrava la bottiglia e con quella riempiva il bicchiere fino all’orlo.
Grazie, ne avevo bisogno.
Perché mi hai seguito?
Sei tu che hai seguito me, non ti ricordi?
Non ricordo tanto, in realtà. Solo, solo...
Solo cosa?
I piedi.
E nient’altro?
Quella orribile pelle.
Non è orribile, è la cosa più preziosa che puoi avere oggi.
Era ovunque: sugli altri, sotto i miei piedi. Pelle, maledetta pelle.
Ce l’hai attaccata addosso.
Mi guardai le braccia, le mani, mi toccai la faccia. Aveva ragione; ero anche io fatto di pelle e più premevo con le dita più la sentivo, strato per strato. Ficcavo i polpastrelli in profondità, la dove avrebbero dovuto esserci tendini, nervi e ossa, ma sentivo soltanto pelle. La potevo tirare, comprimere, ogni singola parte del mio corpo era pelle. Accesi la lampada del soggiorno per meglio guardarla: potevo afferrarne i singoli strati e strapparli via, avvicinarli alla lampadina e vederli oscurare la luce. Cominciai di nuovo a premere le dita sul mio corpo e poi sul mio viso, sulla fronte, sulla mandibola, sugli zigomi: tutto si spostava e piegava. Di ciò che ero mi restava soltanto la pelle: perché altrimenti avrei preso a scappare laggiù in strada?
Avevo ragione io: non fa orrore, è tutto ciò che siamo. Anche lui prese a ficcarsi le dita nella pelle, a muovere gli zigomi, a disegnarsi rughe sulla fronte.
Invece mi fa orrore, se questo è tutto ciò che sono diventato.
Non senti il silenzio dalle finestre? Non c’è più nessuno: c’è solo pelle, e la pelle non fa alcun rumore, non emette alcun suono. Sempre che nessuno la calpesti.
Eppure potrebbe, anzi può. No ancora, voglio dire potrebbe se. Presi a manipolarmi il viso fra pollice e indice, a premere e modellare, aiutandomi con lo specchio del salotto e la debole luce della lampada disegnavo una bocca, una bocca di pelle. Ecco lo vedi? Ora la pelle può parlare.
La pelle non parla, vive. Sopravvive.
Tu mi parli.
Non sono solo pelle, sono carne e ossa e anima. Come te.
La notte si era fatta profonda e densa, mi accorsi di non avere più una goccia di saliva in gola, né più la forza di stare in piedi. Guardai il mio ospite, ancora in piedi, ancora vigile. Vado a dormire, gli dissi. Tu resta, se vuoi, c’è tanto spazio ora. Prendi una poltrona, o puoi sdraiarti sul divano se preferisci.
Credo che resterò in piedi, mi rispose.
La mattina successiva lo trovai sul divano. Quindi hai dormito? Gli chiesi.
Lo spirito è forte, ma la carne è debole.
Come la notte precedente presi a sondare ogni centimetro del mio corpo: prima le braccia e le spalle, poi il petto e infine il viso. Ossa e tessuti bloccavano la pressione dei polpastrelli: aveva ragione Lui, ero carne e ossa. E anima. Quando il virus aveva cominciato il suo voyeurismo nosocomiale c’era stata la corsa da parte degli esperti a tracciarne un profilo per gli addetti ai lavori e allo stesso tempo comprensibile ai più: le dinamiche, o forse sarebbe meglio dire, la strategia di diffusione e del contagio, i danni che era capace di infliggere, gli strumenti diagnostici atti a individuare tanto il virus quanto i suoi danni. Fra quest’ultimi, diversi ospedali erano ricorsi alle tecniche di visualizzazione cerebrale nei pazienti che mostravano vari gradi di sintomatologia: tracciavano il funzionamento di un cervello infetto mentre questo funzionava in tempo reale. Per seguire questa vicenda era necessario avere un po’ di pazienza, evitare i servizi del telegiornale, passare attraverso le cacce ai soggetti responsabili personalmente di diffondere il male nel mondo, attendere le ore più improbabili del palinsesto, quelle riservate alla copertura dei buchi meno evidenti. Frammento lì, frammento qui, talvolta dalle 15:16 alle 16:01, altre volte in maratona dalle 3:03 alle 5:59, l’impatto delle neuroscienze nell’approfondimento dell’epidemia poteva essere svelato anche ai profani. Nelle mappature del cervello era stata identificata la traccia che il virus lasciava di sé, inscritta fra alcune zone della materia cerebrale sulle quali il dibattito era molto accesso e qualche volta perfino brutale. Era come se il virus si fosse registrato nelle persone, come se avesse scritto con il suo linguaggio molto rudimentale l’equivalente molto rudimentale di Gerry è stato qui. Mentre molti si focalizzavano su Gerry, una piccola parte dei neuroscienziati si lasciava trasportare talmente tanto sul qui da dimenticarsi di Gerry (e che il suo stipendio si reggeva proprio sulla sua capacità di identificarlo); ed era proprio qui che volavano gli insulti. La mia divulgatrice preferita era una scienziata americana di cui fino a quel momento non avevo mai sentito parlare: cattedra ad Harvard, idee naturalmente liberali, rispettosa nell’uso del linguaggio, ma continuamente sotto attacco da parte degli altri interlocutori per quel suo vizio di dire che i mammiferi avevano mostrato nel corso dei millenni una tendenza naturale a dividere il lavoro lungo le identità sessuali, seppure concedesse che la genetica potesse cedere il passo alle giustificate necessità dei diritti umani. La tesi della Prof era affascinante per noi fedelissimi delle quattro del mattino, una botta di adrenalina nel noioso decorso narrativo del virus: numerose mappature avevano mostrato l’attivazione di differenti parti del cervello in correlazione con differenti sintomi della malattia. Il cervello risponde a questi stimoli in maniera molto prevedibile, si era affrettato a puntualizzare un professore più solido sul lato diritto-umanista, al che la Prof aveva girato il polso tenendo un invisibile globo prospettico in mano e aveva aggiunto: ma i segni restano anche quando il paziente guarisce. Interessante, interessante, seppure arriva da chi, lo sappiamo, ha un certo pregiudizio evoluzionistico che non le fa proprio onore, attaccava il contradditorio. Qui ti sbagli di grosso, stimato collega, perché non consideri che quei segni precedono i simboli; e vai con un’altra, robusta, rotazione del polso. Per me era una botta di adrenalina, per le persone in studio un’ipotesi azzardata. Voglio dire, sì, lo avete capito, che il virus è già nel cervello ad aspettare pazientemente i sintomi. Assurdità. Follie. Ma fatela tacere questa maschilista del cazzo. La prof aspettava sorridente, globo poggiato, polso rigidissimo e torsione del busto a cercare la telecamera con la migliore illuminazione: o nell’anima, se preferite chiamarla così.
Per meglio chiarire il concetto, era stato mandato in onda (dovevano essere ormai le 15:30 oppure mancavano pochi minuti alle 6) un documentario su degli scimpanzé nella foresta della Tanzania. Là fuori, queste creature così geneticamente simili all’uomo mostravano comportamenti criminali del tutto compatibili con i nostri: violenza sessuale, furti, omicidi. Un gruppo di etnologi aveva passato un lungo periodo di osservazione nella foresta, identificando ogni scimpanzè e catalogandone i comportamenti. I risultati si erano rivelati sorprendenti: la maggior parte dei comportamenti devianti si doveva a un ristretto gruppo di scimmie geneticamente perverse. Interessante, non c’è che dire, appuntavano unanimemente gli altri interlocutori: eppure nelle scimmie il virus non si manifesta, quindi perdiamo del tempo qua. Il filmato è una metafora, aveva ribadito la professoressa: il virus è come la scimmia deviante, è geneticamente inscritto e si deve solamente attivare. Immaginate un blocco di marmo che da solo non ha nessun significato. Se però ci trovate tracciata sopra una sagoma, basta un piccolo scalpello per tirare fuori il David di Michelangelo. Il virus è la sagoma, ci resta da capire cosa sia lo scalpello.
Prima di tutto vorrei precisare, aveva esclamato alzandosi dalla sedia l’altro esperto in trasmissione, che ritengo tutti questi paragoni un po’ troppo scorretti.
Scorretti?
Sconvenienti.
Sconvenienti?
Sì, ci siamo capiti: razzisti
Non vedo perché, le scimmie sono molto simili a noi.
Se lei vuole ridurre la complessità a scimmie, si accomodi. Io non lo farò.
Non è sufficientemente complesso?
È razzista.
Stimato collega, prima di ficcare degli uomini nelle capsule con cui li abbiamo sparati nello spazio cosmico abbiamo provato con le scimmie; ci sono dei precedenti da leccarsi i baffi. Il punto non è questo, però.
Bene, ci dica quale è, allora, il punto, la interruppe stizzito il presentatore.
Il punto è che sì, è vero, possiamo, in qualche modo che ancora non ci è chiaro, stimolare e incoraggiare il virus, oppure possiamo essere così aggressivi con lui da ridurlo a un niente, ma la differenza la fanno per davvero i geni. Il cervello, l’anima se preferite, non mente.
Mentre ricordavo queste immagini con chiarezza presi a cercare fra i numeri del telecomando le risposte, gli impulsi che mandavo allo schermo mi restituivano frammenti sparsi e incoerenti: film e serie televisive, vecchi eventi sportivi, il filmato di Zapruder, la verità controfattuale, fino a quando probabilmente cominciai a premere le combinazioni giuste e i buoni salotti della scienza televisiva cominciarono anch’essi a presentarsi in successione negli impulsi televisivi.
Guardi ancora quella roba? Mi chiese Lui.
Come? Non sapevo che fossi ancora qui.
Dove altro potrei andare?
Puoi guardare con me, se non ti dispiace. O puoi prenderti dell’acqua.
E cos’altro potrei guardare?
Sì, mettiti comodo, fai come ti pare.
E come altro potrei fare?

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