Il governo tese sempre più a liquefarsi, mollava

Il governo tese sempre più a liquefarsi, mollava il timone perché la rotta era perfettamente tracciata. Nelle prime settimane i discorsi alla nazione del capo del Governo avevano accompagnato ogni nostra sera, quella voce rassicurante, quel sorriso cordiale, avevano costruito una quotidianità alla quale pure io mi ero abituato. A tenerci vicini a quella faccia era la paura primordiale e la conseguente necessità che qualcuno ci rassicurasse, ma anche una perversa curiosità per l’ignoto e quanto ancora la nostra vita si sarebbe modificata, come i livelli successivi di un videogioco. Per le prime settimane, forse anche per dei mesi, questo era quanti bastava per farci tirare avanti, però già prima della grande discesa per le strade l’umore pubblico andava indebolendosi; le novità non erano mai positive e le si attendeva con nessuna curiosità e con un deciso senso di costernazione. Il governo lo intuiva, oppure lo vedeva direttamente grazie alla sua rete di sorveglianza, e il presidente cominciò a defilarsi e far pesare le responsabilità e le decisioni sul Comitato Scientifico al quale dimostrava la sua subordinazione. Non so se fosse un gioco politico, una precisa strategia, una resa, ma la Scienza prese a occupare ogni spazio, nel suo titanico tentativo di salvarci la pelle e comandarci tutto ciò che era necessario per tirare avanti il più a lungo possibile. La politica si era mostrata imperfetta e impreparata: non aveva previsto quanto stava per accadere, non aveva un piano per questo genere di emergenze e più di ogni altra cosa non c’era stata in lei alcuna capacità di leggere il futuro con il giusto grado di precisione. Non soltanto il governo aveva percepito queste sue carenze, sollecitato com’era stato fin dal principio da parte degli scienziati, ma l’intero personale politico che si era quindi fatto trovare unito nel supporto al governo per non dare ulteriore prova della sua incapacità oracolare. La luna di miele non era durata a lungo però e la politica era tornata a fare ciò che normalmente faceva: dividere e discutere, procrastinare, porre i diversi interessi in lotta fra loro, parlamentare su decisioni di immensa importanza; il governo inccasava e reagiva, utilizzava tutti i suoi strumenti per difendere la posizione dominante e, quando necessario, un medico interveniva in suo aiuto consigliando a un deputato dell’opposizione di fare il tampone e, di conseguenza, ritirarsi dall’agone per il bene collettivo. La Scienza, dall’altra parte, aveva mostrato grande unitarietà di intenti e il suo scopo era stato quello di fornire un ampio spettro di possibilità almeno una delle quali si sarebbe realizzata. Onde evitare che una tale comunanza di intenti e di risultati potesse essere minata da coloro che provavano a trasformare perfino la Scienza in uno scambio democratico, una delle prime decisioni del Comitato Scientifico, che il governo applicò immediatamente, fu quella di censurare le opinioni scientifiche che sfuggivano al consenso scientifico e quindi minavano lo sforzo scientifico. Così, mentre nei programmi tendevano a sparire alcuni voci, fra cui quella della mia amata prof, chi restava prendeva a vestirsi nella stessa maniera, a utilizzare alcune formule di rito, a ripetere dei gesti con maggiore frequenza di altri: soltanto così la Scienza poteva, morta la nostra anima, salvare i nostri corpi. Con gli stessi abiti compariva alla televisione il Comitato Scientifico, racchiuso in un emiciclo e alla presenza di quelle telecamere di fronte alle quali il capo del Governo ora si limitava a fare una piccola introduzione, serena e variabile, ma che immancabilmente terminava con le parole: sentiamo ora cosa ha da dirci la Scienza. E la Scienza allora parlava, non solo in Talia, in ogni dove, perché sfuggiva ai particolarismi e alle discussioni e si affermava con la durezza e la decisione di chi ha davvero lavorato per tutta la vita dentro un laboratorio e dalla vita non ha altro da chiedere. E alla Scienza si rivolgevano i governi, come già avevano fatto molti secoli prima di fronte alle decisioni cruciali e alla guerra, quando i più grandi dominatori dell’umanità non riuscivano a muoversi senza un consulto dell’aruspice. Nella nebulosità del futuro, i consigli invitavano a nuove speranze, alla costruzione di un mondo diverso, a cogliere l’opportunità che solo una crisi ci sa dare per spingere noi tutti un passo più in là. Erano anni che l’annoso problema della criminalità sfuggiva all’eradicazione che soltanto un pervicace controllo audio e video dei luoghi maggiormenti soggetti alla violenza, si scontrava con le resistenze di persone che, pur rassicurando gli altri di non avere nulla da nascondere, sfuggivano alla necessità di essere osservati e ascoltati per l’interesse collettivo. Erano altri anni ancora che i concerti e i mercati apparivano agli esperti del rischio come bombe a orologerie, calche disordinate sempre sull’orlo della strage degli innocenti. L’apparato tecnico-scientifico si era ora messo in moto per proteggerci e sotto gli occhi di tutti si manifestava la solidità dei risultati: i crimini violenti erano stati azzerati e così gli scippi nei mercati, le persone calpestate a morte come da mandrie imbestialite in luoghi affollati, gli incidenti stradali, i maltrattamenti nelle aule scolastiche, gli infortuni degli sportivi. Nessuno mai avrebbe potuto mettere in discussione questo magnifico successo, la riduzione della morte verso una sola e prevedibile causa e, di conseguenza, lo scenario della previsione che si realizza con certezza, il risultato perfetto dell’aruspice che ha fatto tesoro di secoli di prove ed errori e può ora dare un responso inequivocabile, dire un sì o scuotere il capo con l’elegante esatezza di un sistema di equazioni matematiche. Nessuno mai avrebbe più potuto chiedere di tornare indietro, ripiombare nell’incertezza e in un mondo nel quale ogni giorno cammini, vivi e ti avventuri, ti affatichi con affanno sotto il sole senza sapere quale sarà la causa della tua morte. Quale guadagno poteva mai venire da un mondo del genere?
In questo quadro sospeso fra i mondi, la Sua compagnia mi pesava ogni giorno di più e non facevo niente per nasconderglielo.
Ti dà così fastidio confrontarti con me? Mi incalzava Lui quando capiva il mio umore.
So che è brutale dirlo, ma non riesco più a sopportarti.
Dopo tutto questo tempo?
Proprio per tutto questo tempo. 
Quanti pensi che sia passato?
Non lo so, non conto più i giorni.
Delle settimane?
Può essere, forse anche dei mesi.
E se ti dicessi che è molto di più?
So spingermi fino a un limite massimo, conosco la linea degli eventi a ritroso, fino al punto zero.
Che cos’è il punto zero?
Quando è iniziato tutto.
L’universo?
L’epidemia, penso fosse ovvio.
Quindi tu sai dire quando è cominciata.
Sì, me lo ricordo.
Quando è cominciata per te, forse. Ma neanche quello, perché non lo sai se per te è mai cominciata.
Vorresti dirmi che mi sono immaginato tutto o che questo è un bel teatro del cazzo? Il tono della mia voce cresceva e dissimulava sempre meno il fastidio che provavo nei Suoi confronti.
Sei positivo al virus?
Non posso saperlo.
Lo sei.
No.
E non lo sei.
Già.
Come tutti. Eppure vorresti dirmi quando è iniziata l’epidemia.
È cominciata in treno, una sera.
Quel giorno la tua vita è cambiata?
No, non quel giorno, ma da lì. Da lì ha accelerato.
Cosa?
Il contagio.
I programmi che ti guardi alla televisione fanno ipotesi diverse, c’è chi sostiene che il contagio era qui molto prima di quando lo abbiamo identificato o che, forse, era qui da sempre.
Va bene, non so quando è iniziata. So quando è finita la mia normale esistenza, quando mi sono infilato fra queste pareti, senza orizzonti.
Uscivi ogni tanto, ancora lo fai.
Non con la stessa frequenza, non con gli stessi scopi.
Tu sai soltanto quando hai smesso di andare a lavoro.
Non so soltanto quello.
Sì, invece, non sai nient’altro. Non sai nulla di Me.
So che mi hai seguito qui, dopo la scena in strada, dopo quello... schifo.
Ti ho seguito?
Sei entrato qui con me.
Io non ti ho seguito, tu mi hai trovato qui dentro.
Cosa vorresti dire?
Io ero qui. Forse sei tu che hai seguito me.
Ti conviene piantarla qui.
Magari questa è la mia casa; la tua memoria è così desincronizzata che non vedo perché io debba prenderla sul serio.
Vattene.
No.
Levati di torno.
Vattene tu.
Questa è la mia casa!
Così come sei convinto che l’epidemia sia iniziata per te. Invece non ti ricordi nulla, non sai nulla, chiami casa questo posto, questa prigione.
Vattene, non te lo ripeterò più.
Nessuno chiama casa una prigione.
È l’ultima volta che te lo dico.
Sai, oramai mi fai pena. La verità ti sfugge, la vita la hai già mollata ed è per questo che ti arrabbi e non riesci a vedere che in questa prigione ti ci ho messo io.
Provai a formulare una risposta, poi quell’energia che si accumulava nel mio cervello non prese la strada che mi aspettavo, non si trasformò in parole; i miei pensieri presero invece materia, si infilarono nei miei nervi e le mie emozioni scossero i miei muscoli. Lo colpii su viso, con violenza e poi una volta ancora con le nocche che pulsavano mentre sbattevano sulle sue ossa. Lui cadde a terra e mi avventai, solo nervi, muscoli ed emozioni, più nessun pensiero. Lo colpii ancora e poi ancora. Vedevo la sua faccia scomporsi, il naso piegarsi sotto i miei pugni chiusi, gli occhi strizzarsi, ma quella bocca sporca di sangue rideva. Ero stanco di colpire, mi fermai: quel sorriso fattosi risata mi aveva svuotato più della fatica.
Hai finito? Mi chiese.
Non risposi e subito mi fu addosso: era il suo turno di colpire e lo fece con la stessa mia violenza fino a quando tutto si fece buio e mi svegliai nel cuore della notte, sul pavimento del soggiorno. Annaspai e mi rialzai, passo per passo guadagnai il bagno, accesi la luce e mi guardai allo specchio: la mia faccia insaguinata era deformata da un sorriso. Restai a guardarla per qualche minuto, infilai le mani sotto l’acqua scrosciante del rubinetto e presi a sciacquarmi con cura per poi riguardarmi ancora. Non sorridevo più, ma neppure riconoscevo quei tratti. Ero davvero io? Presi a girare per casa, cercando di riconoscerne i dettagli, il mobilio, le macchie sui divani, la disposizione dei tappeti e le irregolarità delle mattonelle; presi a vagare alla ricerca di quella prova che mi convincesse che non ero a casa mia. Stremato mi misi a sedere, con l’istinto di accendere la televisione accarezzai i tasti del telecomando, mi passai la fotocellula su una tempia e grattai a lungo decidendo cosa fare, ma decisi poi di non accendere la televisione per paura di non riconoscere il mondo. Non capivo più quanto tempo era passato, quanto di vero ci fosse là fuori e qui dentro, fra le mura di casa, dentro la mia gabbia toracica. Magari c’era ancora un mondo fuori della mia testa, probabilmente sarebbe bastato aprire la finestra e stare a guardarlo per un po’, familiarizzare di nuovo con il pallore delle strade, sentire ancora una volta l’aria fresca sul viso e uscire da quel lisergico letargo nel quale ero sprofondato insieme a qualche decina di milioni di altre persone. Non lo feci perché, come sempre, preferivo non sapere. La montagna però ha sempre ragione, alla lunga realizza ciò che deve realizzare e il mondo oltre la mia testa venne a rimbombare dentro la mia testa sotto forma del prolungato trillo del campanello. Mi precipitai alla porta senza notare il tappeto che si era increspato e sul quale finii per inciampare, perdere ancora una volta il contatto con il mondo, dentro e fuori la mia testa, e atterrare con la fronte su una gamba del tavolo. Mi svegliai con quel suono ancora addosso, incapace di coglierne l’effettiva realtà, di distinguere il fuori dal dentro. Presi fiato e strisciai in avanti per un po’, fino ad avere la forza di tirarmi sulle ginocchia e infine sulle gambe, con l’aiuto di braccia che ancora erano mie, raggiunsi la porta per aprirla: il mondo mi aveva chiamato. Il pianerottolo buio non rivelava alcuna forma, nessun rumore, nessuna presenza; accesi la luce, ma non cambiò nulla. Solo quando guardai per terra, con la testa ancora che ronzava, vidi sullo zerbino che mi era stato recapitato lo Strumento.

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